L'elezione di Papa Francesco mi ha sorpreso e rallegrato, così come i primi messaggi che ha voluto dare sono stati quelli che da tempo volevo sentirmi dire da chi ha il compito di guidare la Chiesa.
Li aspettavo da molto tempo, sicuramente dal 2001.
È stata l'estate in cui si è consumata la mia Bildung, umanamente parlando. In cui si è sciolto come neve al sole il mio orizzonte ristretto, fatto di poche preoccupazioni, tanti privilegi.
L'elezione di Papa Francesco, dal Sudamerica, mi ha ricordato quell'estate e i quasi due mesi nelle favelas di San Paolo, in Brasile. I poveri a cui chiede alla Chiesa di stare vicino per me hanno i volti di quei bimbi che ho visto scalzi tra i topi, di quelle donne e di quegli uomini che mi hanno aperto la loro casa e mi hanno insegnato che la generosità non ha nulla a che vedere con il denaro. E che più si lotta per i più deboli, più si diventa ricchi.
Mi ha ricordato il rumore degli spari che si sentivano spesso la notte, e il silenzio angosciante che ne seguiva.
Papa Francesco mi ha ricordato i missionari e le missionarie che mi hanno ospitato, e che ho visto donarsi, per lottare per i diritti dei deboli. Tutti i deboli, senza distinzione di etnia, di sesso, di credo. Che ho visto minacciati dai gangster locali. Che ho visto scendere in piazza a protestare contro la polarizzazione della ricchezza del Paese in mano a una minuscola minoranza. Che ho visto immergersi nella miseria, senza mai chiamarsene fuori.
Di quell'estate nutro ancora oggi una profondissima Saudade (nostalgia, nel senso etimologico del termine). E sapere che le prime parole del nuovo Pontefice sono andate anche quei volti, a quei vicoli intricati di scalini, a quelle baracche di lamiera e mattoni, ha reso la mia Saudade un po' più viva ma un po' meno dolorosa.